Memorie di una fornace
‘La ciminiera di Palazzi’
Tornavo dal mare. Dalla auto in corsa, dopo il cavalcavia di Palazzi, scorgo incredula una ciminiera rossastra. Capii che quella sarebbe stata la mia prossima meta: la mia seconda esplorazione. Dopo una settimana circa, con zaino in spalla e biglietto del bus alla mano (io e l’amica del tempo), ci accingevamo, così, a raggiungere il piccolo paesino adiacente a Cecina.
Dopo varie peripezie, si perchè i campi di grano creavano un effetto ottico di non indifferente disturbo facendoci sbagliare strada più di una volta, riuscimmo a imboccare il sentiero di campagna giusto. Il sole cominciava a calare e i suoi raggi colpivano di sbieco il paesaggio creando un’atmosfera tremendamente malinconica. La camminata fu atroce, alla fabbrica non si arrivava mai. Ad un certo punto riuscimmo ad intravederla: il tetto era franato ma il resto sembrava integro. Man mano che ci avvicinavamo, però, notammo un fattore che ci bloccò l’estasi della sospirata esplorazione: adiacente alla nostra meta sorgeva una villetta con tanto di cani. Per un attimo la mia compagna fu lì lì per disertare. Cercò di convincermi ad abbandonare l’impresa, a lasciar perdere, ma non fu così. Col cuore in gola scavalcai la sola catena che era a protezione della proprietà. La piccola e vecchia Fornace era costruita totalmente in mattoni, sulle pareti esterne sorgevano numerosi varchi pieni di rifiuti, mattoni e vegetazione.
Mentre eravamo in preda ad un furore fotografico, sentimmo arrivare un auto, e i cani cominciarono ad abbaiare più che mai. Ricordo che pensai:- no, adesso no! Infatti mi mancava da esplorare la parte superiore della fabbrica, collegata da una solida scala in mattoni ma con un sottile scorrimano in ferro. Riflettei brevemente: - bhè, o la va o la spacca, tanto ‘l’omino’ ci scoprirà lo stesso, che ci vedrà andare via dalla fabbrica o ci vedrà nella fabbrica non cambierà niente.
Salì le scale, e non curante dei richiami del così detto ‘omino’, arrivai all’ultimo scalino, impugnai la macchina fotografica e creai uno degli scatti più belli della mia vita di esploratrice urbana: una banalissima damigiana in vetro verde smeraldo fu immortalata in quel sottotetto franato. Le urla dell’ ’omino’ cominciarono ad essere dannatamente fastidiose: aveva paura che mi cascasse una tegola in testa. Scesi le scale e con una notevole faccia tosta mi avvia presso l’uscita della fabbrica con la compagna terrorizzata. La storia finì che, nonostante m’improvvisai ‘fotoreporter del giornalino scolastico’, ci beccammo l’immancabile ramanzina di rimprovero. Adesso, a distanza di tre o quattro anni, la Fornace di Palazzi è ‘adeguamente’ recintata, con rete verde alta due metri e transenne.
Il corpo imprigionato ma l'alta ciminiera ancora libera, urla la sua esistenza. Elvira Macchiavelli