Memorie ‘del Manicomio’
‘Ferri e Charcot, NOF e la sua storia incisa’
Sono andata all’ex manicomio di Volterra tre volte. Ognuna di queste visite ha rilevato qualcosa di nuovo. Quando mi ci recai per la prima esplorazione, Poggio alle Croci, non era ancora nell’occhio della stampa, ( non c’era ancora il progetto di smantellarlo e costruirci un quartiere residenziale), il padiglione Maragliano era ancora non del tutto inghiottito dalla vegetazione e i graffiti di NOF erano ancora ben visibili…
La funzione del manicomio era quella di contenere persone con disturbi mentali che potevano ‘nuocere’ alla famiglia oppure semplici persone con disagi temporanei che in qualche modo venivano etichettate ‘folli’. La famiglia spesso si dimenticava dei propri ‘cari’ ormai internati in un abisso di dolore, sofferenza e solitudine. ‘I matti’ si dimenticavano del mondo, lo perdevano, smarrivano il progresso e ogni contatto con ciò che veniva considerato ‘normale’; e di conseguenza il mondo si dimenticava di loro, dei loro occhi, dei loro corpi magri o gonfi, delle loro storie, della loro storia.,
Il manicomio è suddiviso in tre complessi bianchi e umidi che sopprimono l’essere umano con la loro mastodonticità. E’ situato lontano dalla civiltà, sulle colline della campagna silenziosa. Oltre il muraglione di cinta, il giardino cupo presenta panchine e tavoli di pietra. Dalle finestre alte con le inferriate immagino gli stridii, le risate e i pianti dei folli che un tempo non troppo lontano, pervadevano questo luogo. I corridoi dagli alti soffitti si snodano nei meandri del padiglione principale: il Ferri. L’ambiente è poco illuminato e pieno di calcinacci al suolo. Alle pareti ci sono dipinti agghiaccianti affreschi (la dea del suicidio col suo cappio, l’ermafrodito dell’omertà, la dea del possesso e della gola…). Le stanza, o meglio, le celle dei pazienti sono piccole e anguste: dal libro di Mario Tobino ‘gli ultimi giorni di Magliano’, immagino quelle stanze che un tempo dovevano essere rivestite di gomma piuma oppure, come unico arredo, dovevano avere il letto per evitare che i ‘matti’ si fracassassino la testa contro le pareti o un armadio. Sotto una scalinata in marmo c’è una porta aperta che ‘dà sul buio’. Per raggiungere l’interrato siamo dovuti scendere lungo degli scalini frananti e instabili, le torce fendono il buio e un odore di decomposizione ci impregna le narici. Ci troviamo in una piccola stanza con due celle con le pareti in legno. So a che cosa servivano: i pazienti più agitati ci venivano reclusi spesso al buio e senza cibo per giorni. Gli uomini, delle bestie. Riemersi dal semi interrato continuiamo la nostra esplorazione. Al piano superiore il soffitto è completamente crollato, le celle con le porte aperte su un mare di mattoni e calcinacci fracassati, sembrano fluttuare nell’aria. E’ impossibile proseguire al primo piano così che continuiamo al piano terra. Scartoffie, vetri, sedie a rotelle: il paradiso mio e per la mia Nikon. Affamata di nuovi scatti e antri a me sconosciuti, le mie guide, mi portano nel giardino (dove,oltre una scalinata muschiosa e franante) conosco lo Charcot. Questo padiglione, in passato dedicato alla sezione criminale, è, a mio parere, il più tetro e misteriosoe quindi il più affascinante. Appena entrati siamo al centro di due lunghi corridoi pieni di armadi, computers, macchinari, scartoffie, e registri (non medici). Nelle stanze del corridoio di destra c’è di tutto. Trovo un lettino di legno con delle cinghie, delle chiavi, una saliera, e una stanza buia con vari macchinari a riposo. Un foglio sulla porta vieta di portare ‘via tutto’. La seconda volta che mi trovai in questo corridoio, più precisamente nella stanza col lettino di legno, avvenne un fatto strano: non so se fosse stata soggezione o quant’altro ma io e la mia compagna di avventure abbiamo sentito una voce. Roca e soffocata c’imponeva di andar via. Questo fenomeno si manifestò in me in maniera molto strana. Non so il motivo, ma di impulso uscii dalla stanza per ritrovarmi nel corridoio, avvertii come un capogiro, sentii freddo e brividi lungo tutto il corpo e una leggera nausea s’impossessò di me. Poi quella voce. Ricordo che guardai la compagna e anche lei annuì. L’aveva sentita anche lei ma senza i miei soliti disturbi.
Ovviamente proseguimmo l’esplorazione.
Nel secondo corridoio, un cartello con scritto ‘seconda sezione’, affisso al muro ‘sgallato’ ci accoglie. Sono in estasi, contenta. Le guide mi fanno vedere la stanza dove la poltrona arancione, della ben nota terapia elettroconvulsiva, giace indisturbato dopo la sua lunga attività lavorativa. Questa è rivolta verso l’alto finestrone e a lato i sui comandi sono silenziosi. Molti sconosciuti bottoni sono rimasti premuti. E’ proprio qui, al confine di questo corridoio che vedo qualcosa di ‘unusuale’. Ora voi vi direte, ‘caspita ma tutte tu’?! E io vi risponderò - ‘e io che ci posso fare?’ Come al solito rimango sempre dietro al gruppo così che per ritrovarli è un ‘lavorone’. Mi metto a cercarli nel corridoio e voltandomi lentamente vedo un’ombra. Si, la tipica ombra sul muro che indisturbata scivola via prima che riesci ad impugnare la macchina fotografica o la cinepresa.
–‘Perfetto- ricordo di aver pensato-siamo a posto’.- Non mi preoccupai troppo di questo avvenimento né mi terrorizzai a vederla. In compenso, dopo aver visitato il Manicomio di Volterra, la paura del Buio non mi ha lasciata per quasi un anno.
-.-
La prima volta che andai a Volterra non prestai attenzione ai graffiti di Nannetti Oreste Fernando, anzi, gli dedicai soltanto uno scatto. La passione per lo scoprire e far conoscere la sua indecifrabile storia incisa venne molto dopo. Il motivo delle due mie prossime visite fu proprio questo: fotografare il più possibile i graffiti di NOF. Ricordo il Mondo con sopra quell’antenna che emana onde radio, ricordo le date, il Carabiniere, i gatti… mia mamma che, tutte le volte che siamo tornati a Volterra, si ostinava a decifrare quei geroglifici…
E ora che vi ho raccontato tutto di questo bel posto, delle mie esperienze con spiriti o banali soggezioni, ora che vi ho raccontato cosa c’è al suo interno (scartoffie, armadi, e relitti vari…) vi dico anche che adesso non c’è più nulla di tutto ciò. Rimangono i complessi nudi, i riflessi vitrei dei ‘cristalli’ nei confronti del giardino apparentemente incolto, rimane l’inconfondibile atmosfera di un luogo che sa. Rimangono, ma ancora per poco, i 200metriquadri di quella storia incisa sulle friabili pareti del Ferri e Charcot, rimangono le fotografie e gli scritti per ricordare.
Elvira Macchiavelli