“-Allora andiamo?-”
“-Um…è già tardi, guarda che Quella è grande. In due ore, per come siamo fatti noi che si fotografa tutto, in due ore si fa una stanza.”
L’indomani questo breve dialogo si sarà rivelato essere una giusta intuizione.
300.000 metri quadri di area industriale totalmente abbandonata di cui 150.000 metri quadri edificati.
Un vasto parco giochi urbano ricco di spunti fotografici, antri bui e fetidi. Quella che era una delle più grandi industrie tipografiche dell’editoria italiana entrò in crisi nel 2010 e, nonostante le forti e tenaci lotte sindacali, chiuse definitivamente i battenti nel 2016.
Non sono bastate sei ore di esplorazione per visitare tutto l’impianto abbandonato.
La prima cosa che ci ha colpito, una volta penetrati nell’area, è stato il grandepalazzo degli uffici che abbiamo visto al termine del nostro viaggio: il palazzo infatti, a differenza dell’area industriale vera e propria, è uno stabile luminoso di 9 piani, i cui vetri delle finestre sono stati totalmente disintegrati come da una detonazione interna. Con cautela e massima attenzione, per scongiurare eventuali incontri con ospiti indesiderati (non si sa mai), siamo entrati nel grande capannone abbandonato; spoglio, vasto, polveroso.
Proseguendo siamo entrati in un corridoio blu leggermente in penombra. Le stanze sulla destra erano colme di materiali: da plichi di volantini promozionali, a lampadine frantumate, ad accessori per le stampanti disintegrati. Navigavamo nel buio del passato scivolando su grandi macchie di grasso che facevano pensare a residui appiccicosi di Aliens oppure di Gremlins.
“Siete sulla via giusta” ci ha suggerito telepaticamente una boccetta di vetro sul pavimento. Svoltato l’angolo ecco il buio laboratorio chimico. Nella stanza nociva un tripudio di polveri e liquidi separati e mescolati in contenitori piccoli, vitrei ed ermetici.
Oltre il corridoio, mille stanze. Si susseguivano altre stanze con i materiali più svariati per la produzione grafica, da stampanti a computer, da cartogrammi a tecnigrafi. Ci siamo addentrati in una parte buia e ampia della fabbrica dei colori; come accade in gran parte dei complessi industriali dismessi, si ha la percezione di sentire passi, voci, bisbigli. E’ facile perdersi ed è facile immaginare che qualcuno possa apparire in uno dei grandi corridoi.
Al termine di uno di questi, abbiamo trovato uno scenario singolare, mai visto: le grandi tramogge di colore per stampanti vomitavano al suolo vaste chiazze di colore lucide e gommose. L’odore di vernice spezzato dalle mascherine, ci ha permesso di stare molto tempo in questa stanza a fotografare e, nel mio caso, a giocare con i colori.
Un’altra sorpresa. Usciti dalla stanza, ci siamo diretti verso il lato opposto del corridoio trovando gli spogliatoi degli operai. Le porte degli armadietti divelti mostravano donne, tante belle donne di carta, giubbotti da lavoro, scarpe e nomi. Nomi di uomini, di donne e di Paesi che entrano nel nostro racconto. Negli spogliatoi c’è ancora odore di chiuso e di sudore, di fatica e di lavoro.
Le parole del poeta Andrej Vosnesenskij sono calzanti di quanto provato emotivamente in quella stanza : “A voi, barbari di tutti i tempi! Imperatori, sultani, con tonache del rosso degli incendi, con le tiare ovoidali e le bocche da cannone dei cilindri! Assicuravate casse e imperi contro gl’incendi Per voi Pegaso altro non era che il cavallo di Troia. La cazzuole e lo scalpello sono vostri nemici. Bruciate col ferro, gli occhi, come marchi roventi, ardevano nelle notti. La mia parola vi giudica. E di vergogna suona. Che da qui vi raggiunga la maledizione.”
Elvira Macchiavelli