Iosif Brodskij-Fondamenta degli incurabili

108 pagine di un vagabondare nell'abbandono

Le parole sono così, appaiono nella mente sotto forma di immagini. Le parole così disegnate si amalgamo con le idee e fissano concetti: nodi da sviluppare. Poi rimangono nascoste in un angolo della testa ma nonostante questo, pulsano, fanno sentire la loro forza, il loro desiderio di essere ricordate.

Da questo processo nascono le rubriche di esplorazioniurbane.

Dopo un silenzio che pareva fosse per sempre, la rubrica crepuscolare abbandono vi propone un libro davvero…onirico.

'Fondamenta degli incurabili‘ di Iosif Brodkij ( Leningrado 1940 - New York 1996) è un racconto solitario ma capace di non abbandonare il lettore. Sin dalla prima parola, la scrittura libera e vorticante del poeta russo, ti sussurra nell’animo: ’Questa è la mia vita sola, possiamo fare un viaggio se vuoi.’

Le 108 pagine del taccuino veneziano di Brodskij (premio Nobel per la letteratura 1987-1991) sono il canale diretto per giungere a quei labirinti dove ‘non sai mai se insegui uno scopo o fuggi da te stesso, se sei il cacciatore o la sua preda’ (Fondamenta degli incurabili, 1989, pag .70).

Vagabondando con i pensieri dell’autore giungiamo con lui in ogni angolo di una Venezia, fino ad incontrare il sogno stesso, l’immaginazione pura emersa dalle acque lucenti della città italiana.

Perché vi sto raccontando tutto questo?

Il capitolo 22 del libro è dedicato ad un’esperienza particolare, che segna profondamente l’animo di Brodskij. Prendendo un occasione particolare, un invito ad una festa, si trova ad esplorare un piano abbandonato di questo palazzo signorile nel cuore di Venezia. Da quest’esperienza oscura che porta allo smarrimento del poeta ed a coinvolgenti, nonché condivise emozioni e riflessioni sulla polvere, ecco cosa ne scaturisce.

 

Ringrazio Nicola Gelo, pianista e mio follower per avermi condiviso questa grande scoperta letteraria. Di seguito un estratto topico che rispecchia in toto il mood suscitato dalla pratica dell’esplorazione urbana.

 

Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili, 1989, Adelphi

‘Era una lunga successione di stanze vuote. Sapevo, razionalmente, che non poteva essere più lunga della galleria alla quale correva parallela. Eppure era più lunga. Avevo la sensazione di inoltrarmi non tanto in una normale prospettiva quanto in una spirale orizzontale in cui le leggi dell’ottica erano sospese.

Ogni stanza ti faceva scomparire un poco, sempre di più, ti avvicinava di un altro passo alla non esistenza. Tutto dipendeva da tre cose: i tendaggi, gli specchi e la polvere. Anche se in qualche caso potevi indovinarne la destinazione – sala da pranzo, salotto, forse una stanza per bambini -, le stanze quasi sempre si somigliavano per la mancanza di una funzione apparente. Avevano pressappoco le stesse dimensioni, o almeno non sembravano granché diverse da questo punto di vista. E in ognuna le finestre erano nascoste da tendaggi e due o tre specchi adornavano le pareti.

Qualunque fosse stato in origine il colore e il disegno dei tendaggi, adesso restava soltanto un giallo pallido, estenuato, fragile. Se un dito li avesse toccati, se un refolo li avesse sfiorati, non ne sarebbe rimasto più nulla, e i brandelli di tessuto sparsi sul parquet erano il preannuncio di questa distruzione imminente. Stavano perdendo la pelle, quei tendaggi, e alcune pieghe lasciavano vedere larghe chiazze nude e consunte, come se il tessuto sentisse di aver concluso un ciclo e stesse ritornando allo stadio pre-telaio. Il nostro respiro, forse, era già un eccesso di familiarità, ma era sempre meglio dell’ossigeno fresco, di cui quel tessuto, come la storia, non aveva bisogno. Non era tabe, non era decomposizione; era un dissiparsi retrogrado, verso un tempo remoto in cui il colore e la struttura non contano, dove forse le cose, avendo imparato quale può essere la loro sorte, si ricomporranno per ritornare, qui o altrove, con un aspetto diverso. (…)

Poi c’erano quegli specchi(...) Abituati da secoli a non riflettere altro che la parete di fronte, gli specchi non si decidevano a restituirti il tuo viso, erano riluttanti, per avarizia o per impotenza; e quando ci provavano, le tue sembianze tornavano indietro incomplete.(...) Di stanza in stanza, a mano a mano che avanzavamo in quell’infilata, mi vedevo sempre meno, entro quelle cornici, vedevo sempre meno me stesso e sempre più il buio. Sottrazione progressiva, dicevo tra me; come andrà a finire? E finì nella decima stanza, o nell’undicesima. Ero vicino alla porta che dava nella stanza successiva, con gli occhi fissi su un rettangolo piuttosto grande, un metro per sessanta centimetri, e non vidi più me stesso, ma un nulla nero come la pece. Un nulla fondo e invitante che pareva racchiudere un’altra prospettiva, diversa – forse un’altra infilata. (...)

Fin dall’inizio l’avventura era stata discretamente sinistra; adesso lo divenne ancora di più. (...) C’era una gran quantità di polvere dappertutto; le tinte e le forme di ogni cosa sfumavano sotto il grigio della polvere. Tavoli di marmo intarsiato, figurine di porcellana, divani, sedie, il parquet stesso, tutto ne era incipriato, e qualche volta, specialmente per i busti e le figurine, l’effetto era stranamente benefico, accentuando i loro lineamenti, le pieghe, la vivacità di un gruppo. Ma era quasi sempre uno strato spesso e compatto; in più, aveva qualcosa di definitivo un’aria ultimativa, come se non si potesse aggiungere polvere nuova. Ogni superficie desidera e invoca la polvere, perché la polvere è la carne del tempo, come ha detto un poeta, e il sangue del tempo; ma qui il desiderio sembrava ormai spento. Adesso, pensai, la polvere filtrerà dentro gli oggetti, si fonderà con gli oggetti, e alla fine ne prenderà il posto. Dipende dalla natura dei materiali, pensai; alcuni sono molto resistenti; può anche darsi che non si disintegrino; semplicemente, diventeranno più grigi, perché il tempo potrebbe assumere le loro forme, non avrebbe niente in contrario, e anzi l’ha già fatto in questa successione di stanze vuote in cui stava prendendo il sopravvento sulla materia.’

 

 

 

Elvira Macchiavelli

 

 

 

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