Oggi vorrei regalarmi un'emozione.
Dal momento in cui ho proposto lo spazio dedicato a Racconti e Poesie, un pensiero vaga indisturbato nella mia mente ma incessantemente viene cacciato da un conflitto interiore.
Ho sempre molta paura di me quando ciò accade, perchè nelle situazioni in cui scelte di cuore e scelte razionali sono contrapposte subentra l'indecisione sul da farsi.
Le mie emozioni sono alcune volte frenate dalla ragione. La mente mi aiuta a valutare ogni azione e non farmi cadere in situazioni inopportune.
E' il grande conflitto interiore che si è presentato quando l'idea di poter pubblicare quanto seguirà mi si è presentata alla mente.
Sembra di parlare di mondi lontani quando si affronta il tema dei manicomi e, inconsapevolmente, la nostra mente viaggia nel tempo alla ricerca di immagini dai contorni in bianco e nero, incorniciate da occhi tristi, camicie di forza, catene, finestre sbarrate.
Ma la vita, quella vera, quella della malattia, della solitudine vissuta in una realtà lasciata ai margini, com’era veramente?
Ho avuto la fortuna (termine che utilizzo impropriamente), di conoscere il manicomio abitato e soprattutto le persone che lo hanno popolato. Ho avuto la fortuna (che utilizzo sempre impropriamente), di ascoltare le loro storie, le loro esperienze in parte condivise e convissute. Storie che loro hanno depositato in parte "in me", alcune volte attraverso la trasmissione orale ma più spesso emozionale.
Ho raccontato già tanto nei precedenti post della mia lunga esperienza di vita con i "miei matti" e non intendo qui raccontare le mie emozioni che in parte già conoscete, ma mi piace rendere loro protagonisti della propria storia, attraverso appunto le loro voci.
In questa scelta di testimonianze, ogni storia vissuta ha proprie caratteristiche e proprie sofferenze.
Ecco dove nasce il mio conflitto. La mia mente suggerisce di condividere questa esperienza, la conoscenza porta certamente a sensibilizzare le coscenze verso una tematica importante. Il mio cuore mi suggerisce di riflettere: sono testimonianze che mi hanno donato, in prima pagina c'è anche scritto..." ad Adriana con amicizia, affetto e stima" D.
Ho socializzato con una amica del mio conflitto e lei mi ha risposto così..."Capisco...è una parte di te...ma ricordati le parole di Os...tu devi vivere anche per loro. (questo mi fu detto). Se hai avuto l'impulso di pubblicare...ascolta quella voce".
Lei è l'interfaccia della mia coscienza.
“Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita.”
Così diceva Alda Merini. E ancora mi devo convincere che non avesse ragione…
Ricordi vaghi, stremati.
Molti devono contenere nella propria pelle sofferenze, sensazioni, fantasie, testimonianze, perchè cadono nel silenzio impassibile.
Mi ricorda le urla di dolore di quei bambini quando non vengono sentite.
Descriverò in questi ricordi di un breve seppur penetrante periodo della mia vita, delle realtà oscure.
Nessun autore autentico potrà far “valere” uno scritto di situazioni in cui sia compenetrato; è una spietata legge di vita là dove si arriva alla cinica impossibilità umana.
1974.
Ospedale Psichiatrico provinciale di Cagliari: gesto titanico. Entrato nella sala della direzione vedo un cappannello di uomini in camice. Uno si avvicina per dire che il direttore non c’è. Il mio braccio, la mia mano si muove d’impeto percuotendo la faccia nemica. Lo schiaffo risuona sonoro pieno come il gong nel film di Ercole. Il cappannello si scioglie, si disperde tentando la fuga. Sono costretti a passare sotto il tiro rapido delle sventole. Domino il campo.
Dopo corro verso l’uscita e poi lungo il viale. Stanno per iniziare, così, per me, i giorni, le ore, i minuti più dolorosi della mia vita.
Alla fine del viale prima del cancello, sta una pattuglia in tuta bianca, di guardia con la ricetrasmittente. Tento un impossibile dribling ma con abile mossa un “cacciatore di pazzi” mi placca e con le braccia mi cintura il collo immobilizzandomi. Per poco non mi stacca la testa. Mi trascina per quasi cinquecento metri fino all’interno dell’ospedale stringendo sempre più. Destinazione Terzo Reparto Uomini, celle agitati detto “Centro”. Dopo avermi legato a un lettino suona un gong diverso. Arriva un vigilante in tunica celeste con una siringa dall’ago gocciolante.
Il primo match è finito.
Privo di sensi per un lungo periodo, ricordo solo che mi rivolgevo a Dio chiedendogli che male avessi fatto e se fossi già all’inferno.
Io comunque sempre legato per giorni interi, stando in posizione supina, non potevo neanche riposare: dormo sempre poggiato di pancia sul letto. Vi era anche freddo e la finestra, e non solo la mia, (erano tantissime l’una a fianco all’altra) aveva dei vetri rotti e filtrava dalla fessura una corrente freddissima.
Essendo legato non potevo coprirmi bene e allora mi si aggiungeva il fatto di aver freddo soprattutto ai piedi: non potevo far altro che resistere.
La speranza nella vita l’hanno tutti, dai ciechi ai mutilati, ma io non sapendo quando l’inferno dovesse finire, nel momento ero in una situazione ancora peggiore.
La sofferenza non era tanto fisica quanto psichica; mi sentivo così debole nella mente che ero preda di tanti pensieri dolorosi e sovrastanti.
Mi domando perchè mi trovassi lì; spesso capita che molti ricoverati si trovino in questi ospedali senza rendersi conto di come vi siano finiti.
L’amiente nel quale mi trovo “assicurato” consiste in uno squallido stanzone diviso in quattro vani: il dormitorio, l’infermeria, il refettorio e i gabinetti.
Il fettore che veniva dai cessi si spandeva dappertutto e con più intensità nel refettorio, specie nel momento in cui si mangiava e si confondeva con l’odore e con I vapori della sbobba, che una strana équipe di cuochi in grembiulone e zoccoli portava in un marmittone torreggiante nell’incavo di un carrello.
Intanto, stretti da urgenti bisogni, c’era chi d’un colpo si abbassava le mutande (se ce le aveva) e si accoccolava sul pavimento, ornando di fantasiose sculture a spirale, e c’era chi con l’idrante in mano innaffiava i muri nell’inutile speranza di vedervi spuntare dei fiori, chi trovatosi un posticino tranquillo accanto ad un termosifone si stendeva su un fianco, appisolandosi con un braccio ad angolo sotto la testa a mò di cuscino.
Un sudiciume grigio grasso viscido era sparso dappertutto, come se qualcuno si fosse preso la briga di spalmarlo diligentemente come burro e marmellata sulla fetta di pane.
Nel cielo dello stanzone volteggiavano nugoli di mosche di specie e dimensioni e ronzio diversi e si esibivano in prodigiosi spettacoli di acrobazie aerea, ma di tanto in tanto qualcuna piombava per terra, forse sfinita, impazzita o stanca di quella vita.
Mi ricordo ancora che mi slegavano soltanto quando veniva a trovarmi mio fratello. Gli infermieri gli dicevano: “stia attento, è pericoloso e violento”; mio fratello sorrideva, dicendo di slegarmi.
Ricordo sempre quell’abbraccio tra noi.
Riflettendoci ora sembrava chiedere pietosamente di portarmi via; perchè non ero violento anche con mio fratello?
Il secondo mese, novembre, era per me un’altalena tra il letto e le stanze. Si era in tanti, si finiva per colpirsi.
Vi era quasi una gara tra me e un altro: ci suggestionavamo a lungo e nella tensione che ne seguiva finivamo per soccombere entrambi ai “nastri” che erano sostitutivi delle camicie di forza.
Nell’ambiente quindi si creava fitto un senso, un’armosfera di disperazione.
Fine di novembre, tra i tanti pensieri quando viene mio fratello, mi nasce un sentimento: era un sentimento riguardo la foce del fiume Tirso, un’idea nostalgica di concentrazione eccezionale, di una spiritualità elevata. Credevo che prima di iniziare la vita che volevamo vivere, io e mio fratello, tenendoci per mano, avessimo visto (lì, in quel posto incantevole in cui i monti al tramonto appaiono rossastri e il fiume si scontra con il mare creando delle correnti) la vita doveva ancora venire e che però sapevamo sarebbe stata dura, ma mio fratello mi infondeva coraggio dicendomi...”ce la faremo”...Ricordo inoltre che a fianco a lui anche i vortici della foce non mi facevano paura, avevo fiducia che mi avrebbe potuto salvare anche lì.
Parte finale:
Il racconto di queste esperienze è inconcluso, certamente era solo una piccola parte di quella vita.
Una certa Pace però in mezzo a questi travagli viene raggiunta tramite una profonda conversione di fede in Dio, ove ora si rifugia il mio Animo.
Questa penso possa essere la vera conclusione.
Giovanni
Ho riportato fedelmente quanto da lui scritto. Oggi ho fatto un regalo anche a me.
Adriana Adamo