Alda Mrini: ricordi e riflessioni a partire da "Corrispondenza negata. Epistolario della nave dei folli 1889-1974"
"La Repubblica" del 2 novembre 2008 riprendiamo il seguente intervento di Alda Merini raccolto da Maurizio Bono col titolo "Il poeta sulla nave dei folli"
"Cari genitori, io sto bene", "vi ringrazio tutti", "parti subito, vienimi a trovare", "cara famiglia, giuro di non disubbidirvi piu'". Leggo qualche frase dalle lettere ritrovate a Volterra, e la cosa piu' commovente e' la fiducia: quella dei pazienti che scrivono ai loro cari e quella dei parenti che scrivono ai pazienti. Gabbati tutti e due, con quelle lettere mai consegnate. Io sono stata una paziente e ricordo le volte che vedevo passare
un uomo vicino all'inferriata e gli affidavo un biglietto. Figuriamoci se lo consegnava, ma non importa. Contava di piu' la speranza che un giorno potesse venire li' un amico. Erano balle, ma importanti. Per questo e' una sconcezza che le lettere siano finite in un cassetto, e questo e' un libro che e' giusto pubblicare.
Amavamo talmente i nostri cari che non dicevamo mai niente del dolore, degli elettroshock. Inventavamo la vita dentro il manicomio e a loro dicevamo che la vita e' bella, come nel film di Benigni. Per non scandalizzare i figli, e neppure gli adulti. Per risparmiargli le preoccupazioni e i dolori: puo' sembrare strano ma sei tu, rinchiuso, che hai pieta' per loro. Lo stesso con le visite: aspettavo mio marito per giorni e quando lo vedevo dimenticavo tutto quello che avevo patito nella giornata, e allora qual era la verita', la mia gioia di vederlo o il mio terrore dell'attimo prima? C'e' un aspetto trionfale, in quell'amore che ci teneva in vita, la speranza che "prima o poi lui mi rispondera', prima o poi mi verra' a prendere".
Mio marito e' l'uomo che mi ha fatto rinchiudere, per gelosia. Ma credo che non sapesse di mandarmi alla tortura, aveva creduto ai medici. Quando anni dopo e' morto di cancro, non avevamo i soldi per curarlo e allora ho messo mano al mio libro Terra Santa. Lui, poveretto, mi correggeva le bozze e ogni tanto alzava gli occhi dai fogli per dire: "Davvero ti ho fatto passare tutto questo?". Del resto l'autore del nostro disastro e' sempre il padre, il marito, il fratello. Subirlo e' la forma piu' grande di amore, percio' si perdona. Non voglio descriverlo come un essere abietto, era anche una persona positiva, con una materialita' che mi ha aiutato, perche' il poeta, se non lo tiri giu', vola via. Gli do una colpa, grande: mandarmi in manicomio e' stato un tentato omicidio, pero' colposo.
Ai medici e' piu' difficile perdonare. Uno non diventa matto di colpo, posto che il poeta e' naturalmente un malinconico, ma e' anche un meditativo e uno scrupoloso osservatore delle cose, un cronista come Dante, o come gli apostoli, che erano poeti di strada e raccoglievano storie. L'ho fatto anch'io. In quei momenti non puoi scrivere poesia, non hai niente da dire. Ma ho imparato a guardare nella mia anima e in quella degli altri. Il manicomio e' un posto pieno di attori mancati, che recitano con grande naturalezza. Il malato sa sempre di chi e' la colpa, ma non lo dice perche' al colpevole vuole bene. Allora si crea una favola e va ad abitarci per salvarsi la vita. E ci resta finche' non lo tiri fuori con una sberla.
Sberla metaforica, dico, non elettroshock. Quelle sono cento sberle insieme, ti si spaccano i denti, ti svegli coi capelli ricci e non ricordi nulla. Siccome il manicomio e' un'hilarotragoedia, avrebbe detto Manganelli, e i matti sono anche divertenti, a volte dicevamo ai dottori: "Perche' il numero sette non ha fatto la terapia?". Il numero sette non ricordava niente, gli infermieri non ci facevano tanto caso e cosi' ne faceva due. Guarire e' un'altra cosa, come ho scritto del mestiere di poeta, "e' un improbo recupero di forze per avvertire un po' di eternita'". Certo, da certe esperienze puoi anche tirare fuori una grande forza. Però sconsiglio di passare di lì.
Piu' avanti ho conosciuto un altro aspetto del manicomio, quando un dottore, il mio Dottor G. a cui ho scritto tante lettere che ho poi pubblicato in un libro, mi difendeva dalle torture e mi metteva davanti una macchina da scrivere perche' mettessi sulla carta i miei pensieri. Regolarmente succedeva un miracolo, quando tornavo in manicomio sparivano tutti i sintomi. Ritrovavo tutti e quando si spalancavano le porte erano le porte dell'Eden. Mi accoglievano a braccia aperte, in un certo senso era gia' cominciato il mio successo.
Ci sono molti equivoci su poesia e follia, e sul poeta e il dolore. C'e' gente fuori di testa che pensa che la poesia sia una terapia, invece e' una vocazione. Il poeta nasce felice. Sono gli altri che gli procurano il dolore. Non parlo solo del manicomio, ma di dolori come la passione quando diventa un abisso. Come per Teresa Raquin, come per Madame Bovary, una schiera di donne di cui credo di far parte, che vogliono essereamate senza essere strumentalizzate. Io sono stata strumentalizzata tanto. Ma tutto alla fine diventa ricordo. E noi sulla beatitudine dei nostri ricordi ci addormentiamo.