I GIRONI di MAGGIANO.

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26/11/2012 16:39:37
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TAGLIAFERRI RODOLFO

I GIRONI di MAGGIANO.

Sono rimasti soli, in un ex ospedale psichiatrico, per oltre un decennio. Dal '78 -anno della “legge Basaglia”- hanno assistito allo smantellamento del manicomio in cui stavano: i malati se ne andavano, loro no. Un gatto e un cavaliere hanno “custodito” l'ex ospedale psichiatrico di Maggiano, 7 chilometri da Lucca, fino ad oggi. Erano stati dipinti dai "matti" a colori sgargianti su una parete: il cavaliere in armatura, il gatto, ridente, sotto una palma.

 

Oggi tornano ad essere visibili: grazie al lavoro della Fondazione Mario Tobino, infatti, l'ospedale psichiatrico più antico d'Italia, risale al 1773, apre, in parte, i suoi spazi al pubblico. Un lungo e costoso restauro conservativo permette di ripercorrere alcune stanze e tornare indietro nel tempo, a 40 anni fa, quando il manicomio ospitava più di 1000 malati e 300 infermieri.

Grande come una città, lo “'Spedale de' pazzi” è arroccato in cima a una collina, dalla quale, quando era in funzione, spargeva posti di lavoro e storie incredibili. Come quelle, vere, di donne impazzite da un giorno all'altro dopo un amore finito male, o di figli illegittimi che qualcuno, pur di sbarazzarsene, aveva rinchiuso lì ancora bambini. Questi disgraziati a Maggiano passavano la vita, diventando, non di rado, matti davvero.

 

La “voce” di Maggiano, luogo che ancora oggi in Versilia è sinonimo di manicomio, era quella delle pazienti in preda ai deliri, che, nelle sere d'estate, quando le finestre erano aperte, erano udibili fin dal paese. Oltre il fiume Serchio, però, a far sentire la voce dei matti, ci ha pensato Mario Tobino (1910-1991).

 

Lo psichiatra scrittore, che nel manicomio visse e lavorò per più di 40 anni, occupandosi a lungo del reparto femminile, ha raccontato le sue donne in romanzi tradotti in tutto il mondo. “Le libere donne di Magliano”, “Per le antiche scale” (Premio Campiello '72) e “Gli ultimi giorni di Magliano” sono alcune delle opere scritte dalle sue due stanzette nell'ospedale psichiatrico, oggi visitabili. Così come lo sono le pitture murarie, le enormi cucine con le celle frigorifere e i bagni, camerate nude con le vasche allineate.

 

Il dottor Enrico Marchi, intervistato dalla Fondazione per il progetto di memoria orale di Maggiano, ricorda il ticchettìo notturno proveniente dalla stanza di Tobino. La Olivetti 44 è ancora sulla scrivania della camera da letto. E proprio di Adriano Olivetti, quello delle macchine da scrivere, Tobino aveva fatto innamorare la ex moglie. Aveva conosciuto Paola Levi Olivetti, sorella di Natalia Ginzburg, nel '42, e da allora non l'aveva più lasciata, fino alla morte di lei, avvenuta nel 1986. Ogni fine settimana, Tobino partiva da Maggiano con la sua Topolino per andarla a trovare nella sua splendida villa di Fiesole. “Non è automatica, perché gli dava noia il ritorno del carrello” spiega indicando la Olivetti 44, Isabella Tobino, elegante professoressa di lettere in pensione, oggi vigile custode della memoria dello zio, da cui ha preso, oltre al cognome, un'attenzione particolare alla cura della persona, che Tobino riteneva fondamentale anche per i malati.

 

A Maggiano è ancora visibile un prima e un dopo. Lo spartiacque è il 1952, anno dell'avvento degli psicofarmaci. Prima, la psichiatria era fatta di sedie di contenzione e camicie di forza e di una famigerata valigetta nera: quella contenente il Convulsor, l'apparecchio per elettroshock, ultimo di una serie di metodi usati per "l'obnubilamento della coscienza”, così si legge nel “Catalogo degli strumenti medici e scientifici” edito dalla Fondazione Mario Tobino. Tra essi, come ricorda Isabella Tobino, il pericoloso coma insulinico.

 

Questi strumenti, ancora visibili a Maggiano nel percorso “Stanze con vista sull'umanità”, dopo il '52 vennero affiancati e in certi casi sostituiti dagli psicofarmaci, che trasformarono completamente i pazienti. Le esplosioni di gioia e violenza, pericolose per sé o per gli altri, lasciarono spazio a comportamenti più gestibili. Pittura, ricamo, falegnameria, giardinaggio erano attività a cui i malati potevano dedicarsi. “Lo zio mi portava certe barchette o stanze di legno per le bambole, fatte dai malati, meravigliose!” ricorda Isabella. Negli anni '60, addirittura, per 6 anni si assistette a un Festival della Musica Leggera. I pazienti, vestiti elegantemente, si esibivano dal vivo, soli o in gruppo, davanti a un pubblico di “esterni” in abiti da gala.

 

I pazienti erano passati dai mucchi di alghe (su cui dormivano i più violenti, per i quali anche un materasso e un lenzuolo erano pericolosi) alla quasi accettabilità sociale. Il prezzo da pagare per tale “miracolo”, però, fu alto. Ad accorgersene fu lo stesso Tobino. In più di un'intervista espresse le sue perplessità. Si domandò se dietro agli psicofarmaci non si nascondessero nuove e invisibili camicie di forza. La pazzia, notò, “la più misteriosa dea che esista”, si era ritirata da qualche parte, portando con sé anche la personalità dei malati.

 

La moderna psichiatria stava facendo il suo corso. L'avvento della legge 180 piombò su Maggiano come una scure di libertà. Una libertà, acclamata dall'opinione pubblica, che non tutti i malati -e non tutte le famiglie- furono in grado di sostenere. Tobino, che dopo la chiusura del manicomio chiese e ottenne dalla Provincia di poter continuare ad abitare le sue due stanzette, passò gli ultimi anni della sua vita registrando uno a uno i "matti suicidi". Migliaia, come ricorda lo stesso Enrico Marchi nelle sue memorie orali. A niente valsero gli appelli stanchi del settantenne Tobino: i giornali lo chiamarono “reazionario” e “di destra”, lui che era stato un partigiano. Ma più che per sé, soffrì per quei malati che non aveva saputo difendere.

 

Aspettò la gioia per morire. Lo fece ad Agrigento, la mattina dopo aver ritirato il premio Pirandello. Quel giorno aveva parlato davanti a ragazzi giunti da tutta Italia per osannarlo e con loro aveva cantato. “La sera, a cena, aveva fatto il galante con le belle signore” sorride Isabella.

“Vorrei che di me tanti si ricordassero come una festa, un ballo, un campanile che sòna la domenica!” si era augurato lui, poco tempo prima. Ce l'ha fatta. Per un giorno era riuscito a lasciare a Maggiano i suoi incubi. Ne “Le libere donne di Magliano” aveva scritto che entrare “nella mente del matto” era “come andare all'inferno, vivere nei gironi”. Proprio lì, nella sua stanza manicomiale, sul comò accanto al letto, oggi si trova ancora un libro, così come lo aveva posato. È una Divina Commedia, aperta alle pagine dell'Inferno.