Il tema dei luoghi abbandonati ci pone ad un incrocio fra le più diverse strade, che lì s’intersecano proveniendo da direzioni distinte e ripartono su direttrici autonome.
Queste strade si chiamano architettura, fotografia, sociologia, filosofia, letteratura, poesia, urbanistica, archeologia industriale, psicologia, politica, storia..
Attraversando questo incrocio, quindi, diventa difficile non calpestare parte di ciascuna di esse, non rimanere impigliati in questa ragnatela di concetti.
Entrare nell’incrocio dei “luoghi abbandonati” è come entrare in un mare, le cui acque partecipano sì dell’essenza dei fiumi che vi finiscono, restandone tuttavia autonome e fra di loro indistinte.
E nel tentativo di cavalcare ciascuna onda, perdere la bussola diventa facile, dimenticando la meta iniziale e seguendo le più disparate Sirene.
Torniamo dunque al movente, a ciò che sta alla base di questa mostra: e precisamente partiamo da una osservazione e da una riflessione.
L’osservazione è che anche una città come Lucca, che ha saputo fare della conservazione del proprio patrimonio architettonico un elemento caratterizzante, presenta una quantità notevole di edifici abbandonati.
Dei veri e propri buchi neri nel tessuto urbano, che lo spezzano e, a volte, lo negano.
Dei non-luoghi che destrutturano il concetto di urbanitas, che interrompono il normale flusso delle relazioni umane e sociali che in questi spazi non riescono ad entrare.
Dei lividi nel corpo vivo della città.
Le metafore sui luoghi abbandonati sono infinite e del resto occupano un ruolo privilegiato nell’osservazione da parte dell’uomo, da Roma al Rinascimento, dal Barocco all’Ottocento, da Parini a Foscolo, da Manzoni a Goethe a Carducci.
Perché indubbiamente esiste una forza magnetica che abita i luoghi lasciati a sè stessi. Un fascino che è vertigine, attrazione e paura per l’ignoto, per il precipizio, per il vuoto.
L’edificio abbandonato spezza la nostra sicurezza e stride con la mania di programmazione che muove Amministrazioni e privati. Diventa uno specchio, uno squarcio su di una realtà parallela. Una realtà senza l’uomo.
I luoghi abbandonati sono luoghi post-umani che ci mettono ansia perché ci mostrano un mondo liberatosi dalla presenza umana.
Proprio queste sensazioni contrastanti, questo ossimoro agrodolce, doveva pervadere chi si avventurava fra le rovine dell’Impero Romano, del mondo conosciuto crollato come Atlantide, fra i templi vinti dalle edere e dalle crepe.
Muoversi fra questi luoghi ti fa sentire un superstite, un sopravvissuto. Spaesato.
Vi puoi trovare cose da cui vorresti fuggire, responsabilità da affrontare, in un percorso esplorativo che nasce dentro ciascuno. Nessuna rotta segnata. Nessuna strada obbligata.
Queste sensazioni contrastanti erano anche alla base dell’attrazione irresistibile Settecentesca verso le rovine, verso la poesia struggente delle cose perdute. I ruderi, contemplati per sé stessi, suscitano il ricordo di civiltà remote e inducono a meditare sulla fragilità delle sorti umane, su di un destino ineluttabile di morte.
La riflessione è che non siamo nel Settecento, ma nel Duemila.
Che le rovine sono buone per quadri romantici, ma non per viverci.
Che questi luoghi difficilmente restano piccoli giardini incantati, ma diventano spesso grandi affari per piccoli uomini.
Che certi luoghi abbandonati possono presentare materiali pericolosi e quindi un rischio per la salute pubblica.
Che anche la loro mancata manutenzione può rappresentare una fonte di rischio per terze persone.
Che questi luoghi potrebbero essere riutilizzati riducendo così la cementificazione del territorio.
Che un luogo abbandonato, anche per le ragioni di cui sopra, non risponde solo al suo proprietario, ma all’intera Comunità. Deve perciò esistere una responsabilità nella proprietà, che garantisca al proprietario il godimento del bene senza dargli il diritto di lacerare il tessuto urbano, di creare pericoli, di imporre alla Polis una ferita. Perché in una città come Lucca, i palazzi e gli edifici sono parte della propria storia, al pari delle persone e delle tradizioni.
Ed allora ciò che è abbandonato viene scosso e attraversato da una voce che non è solo quella del passato, della memoria, dell’oblio. Ma è anche quella del presente, del futuro, della riconquista.
I luoghi abbandonati diventano tele squarciate bianche da cui ripartire, in cui ognuno, ogni cittadino, è chiamato a dipingere le proprie idee, i propri sogni di spazio urbano.
Da occasione persa ad occasione trovata, da vuoto a pieno, da non essere ad essere.
Perché, essendo stati ‘defunzionalizzati’, i luoghi abbandonati sono stati anche resi neutri e pronti ad essere ‘rifunzionalizzati’, con la possibilità di trasformarli in momento catartico, luogo pubblico, tema di discussione. E non, unicamente, mero oggetto di interesse per speculazioni immobiliari.
Mano ai pennelli, quindi. E non disegniamo solo “Stecconi”.