MORIRE DI CLASSE 1978-2018

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17/12/2018 15:21:58
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MORIRE DI CLASSE 1978-2018

Morire di classe: un foto-reportage sulla sofferenza psichiatrica

Immagini tratte dall’opera “Morire di Classe”

1968. Siamo in Italia, tra Gorizia, Firenze e Parma. Franco Basaglia, psichiatra e neurologo italiano, chiede a Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin – due protagonisti della fotografia italiana – di effettuare un foto-reportage che possa essere in grado di restituire un’immagine della condizione esistenziale all’interno degli ambienti manicomiali di quegli anni.

Le immagini del progetto vennero utilizzate nel 1969 in un docu-libro intitolato Morire di Classe, la cui pubblicazione rappresentò un momento memorabile nella storia dell’intero complesso dei movimenti antipsichiatrici. Morire di classe è, infatti, allo stesso tempo un album fotografico politico e sociologico, un libro da leggere tanto quanto un libro da guardare (o dal quale distogliere lo sguardo). Ma da dove nasce questa lotta contro le istituzioni manicomiali? Perché matti? Perché poveri? Difficile trovare una spiegazione che sappia riflettere e sostenere la sfida della complessità alla quale questi interrogativi, ci mettono di fronte. Morire di classe ne è un tentativo.

Il focus narrativo prende piede da un’analisi dell’intero sistema manicomiale (e della società), il quale poggiava su un’ideologica divisione del mondo tra ricchi e poveri: quelli che “avevano”, e quelli che “non erano” [Foot, 2015]. Il manicomio, in tal contesto, diventava l’inferno dei poveri, indipendentemente dalla presenza o meno di un disturbo mentale effettivo. Ciò, ad esempio, è quello che venne rappresentato da alcune composizioni di immagini, come quella di un gruppo di ricchi borghesi affiancati ad un gruppo di pazienti presenti all’interno degli istituti manicomiali .

 

 

Tale prospettiva ci permette, oggi, di comprendere meglio anche il titolo stesso del libro. Esso si presenta, infatti, come una sintesi delle analisi e delle valutazioni sociali del sistema manicomiale. Non ci sono numeri di pagina e nelle singole fotografie non viene specificato il corrispettivo autore. È una forma di ‘no-copyright’, espressa nel rifiuto di una prospettiva autoriale e “artistica” dell’immagine, in favore di una visione militante e politica dell’uso della fotografia. Morire di classe è, sotto ogni aspetto, un prodotto della contro-cultura.

clasLa profondità di tale reportage si palesa, in primo luogo, nel contesto e nell’ambiente in cui i pazienti si trovano (con i suoi grossi cancelli, i cortili di cemento e le pareti enormi). In secondo luogo, essa si imprime sui corpi e sui volti dei soggetti attraverso espressioni di dolore e sofferenza, di regole e imposizioni, i quali rimandano ad una più generale subalternità da povertà e istituzionalizzazione.

Se non si parte da queste immagini che, in quegli anni, spalancarono le porte su una realtà ai più sconosciuta e, dagli addetti ai lavori, ritenuta ‘naturale’ – scriveva Franca Ongaro (moglie di Basaglia) – credo non si possa capire la durezza di questa battaglia…” [Ongaro, 1998]. La narrazione in Morire di Classe si concentra, infatti, in buona parte sull’ “architettura del contenimento” e, quindi, sulle le grosse porte, sulle recinzioni, sui pazienti legati, spesso passivi e con posture abbattute. Emerge così un filo rosso che conduce alle più giovani teorie di Erving Goffman, secondo le quali deumanizzare un paziente e identificarlo con un numero costituiscono processi atti a trasformare un essere umano in un prototipo di “paziente perfetto”. Allo stesso tempo, però, gli effetti di questa violenta istituzionalizzazione (spesso a lungo termine) si riversano sui corpi e sui loro volti [Goffman, 1961].

 

La stessa Carla Cerati in un’intervista ebbe a dire «Nel corso di questo lavoro sentii per la prima volta i limiti della macchina fotografica che non poteva cogliere efficacemente l’ossessiva ripetitività dei gesti, le voci, le grida, i lamenti e, insieme, che l’impatto di un’immagine ferma è molto più forte di quelle in movimento che ormai ogni giorno consumiamo con indifferenza attraverso il piccolo schermo» [Michieli, 2009].

Le foto di Firenze sono infatti tra le più forti per la loro crudezza. E’ un ambiente destabilizzante: alte mura di cemento, sedie isolate, pazienti legati nei cortili con divise a righe, camicie di forza, corpi distesi a terra .

Dagli anni 60 ad oggi la situazione è certamente cambiata. Si sono susseguite, infatti, differenti dinamiche sociopolitiche: la legge 180 con l’abolizione dei manicomi e l’introduzione del Trattamento Sanitaro Obbligatorio (TSO), l’introduzione delle comunità terapeutiche riabilitative, i gruppi appartamento, i centri di salute mentale e i centri diurni.

Il 19 settembre 1978, a pochi mesi dall’approvazione della stessa legge 180, Franca Ongaro (moglie di Basaglia), scriveva: «Il 13 maggio non si è stabilito per legge che il disagio psichico non esiste più in Italia, ma si è stabilito che in Italia non si dovrà rispondere mai più al disagio psichico con l’internamento e con la segregazione. Il che non significa che basterà rispedire a casa le persone con la loro angoscia e la loro sofferenza».

Nonostante ciò, tutt’oggi, residui di un approccio pre-basagliano continuano a riemergere nei vari contesti psichiatrici. Scorrendo le notizie di cronaca, infatti, non è raro imbattersi in immagini dure di violenza e abusi. Celebre, ad esempio, è ormai il caso di Franco Mastrogiovanni, lasciato a dimenarsi per quattro giorni su un lettino di contenzione senza poter mangiare né bere, nel reparto di psichiatria dell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania. 87 Ore di non-umanità che lo hanno condotto alla morte.

Sembra che la storia della psichiatria continui a ricadere nella storia dei suoi fallimenti. Qualcosa non ha funzionato. O perlomeno, non del tutto.

Nella complessità strutturale della malattia mentale, ancora oggi, si pone dunque in essere il bisogno di ripartire dall’uomo e dalle immagini che, in un tempo non troppo lontano, hanno fatto di esso l’oggetto delle sue devianze.